POLITICA

Perché il coraggio di Ebru Timtik può diventare la nostra colpa

Duecentotrentotto giorni e duecentosei ossa. Quelle di Ebru Timtik compressa in una fotografia che somiglia a una preghiera. Una curda che ha studiato legge, che in mezzo a un popolo dilaniato e oppresso, in un mondo ancora intriso di maschilismo ipocrita che silenziosamente fa la lotta al potere delle donne, si è aggrappata disgraziatamente alla giustizia come un naufrago che trova la terra e viene rigettato in acqua. Ha cinto sulla testa una corona d’alloro e stretto tra le dita il simbolo di una bilancia. L’aria trasognata ma definita. Un desiderio. Ebru Timtik era un’avvocata, aveva 42 anni ed è morta il 27 Agosto 2020 perché chiedeva per se stessa ciò che gli avvocati di solito richiedono per gli altri: un processo equo.

Non è la prima e non sarà neanche l’ultima, e ce lo ricorda adesso la faccia di Patrick George Zaki, lo studente dell’Alma Mater di Bologna che rischia fino a 25 anni di carcere per dieci post di un account Facebook. I volti emaciati, le espressioni spente sui corpi deperiti di chi grida: “libertà”, e si ritrova schiacciato dal peso delle sue stesse parole. Prigionieri di coscienza detenuti esclusivamente per il loro lavoro in favore dei diritti umani. Detenzioni illegali, arbitrarie, indifendibili non per gravità di un reato ma per partito preso: perché certe guerre le decide la politica. L’autorità di chi tappa la bocca con le buste di plastica a chi ha il coraggio di denunciare un sopruso.

Ebru Timtik faceva parte di un gruppo di 18 avvocati, membri di diverse associazioni progressiste e di sinistra attive nella difesa di casi politicamente sensibili, arrestati nel settembre del 2017 con l’accusa di collaborazione e legami con il Fronte Rivoluzionario della liberazione popolare (DHKP/C), gruppo di estrema sinistra considerato organizzazione terroristica dal governo turco, dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti. Nel marzo del 2019 vennero riconosciuti colpevoli e condannati a lunghe pene detentive; in particolare Ebru Timtik fu condannata a 13 anni e 6 mesi di carcere. La richiesta di appello, presentata a Ottobre, venne rifiutata insieme a quella di Luglio che respingeva la richiesta di trasferirla in ospedale nonostante un referto medico attestasse che le sue condizioni fossero ormai critiche. Ma era già tardi. A febbraio 2020 infatti, Ebru aveva iniziato uno sciopero della fame nella speranza che le concedessero il processo di una sentenza senza prove. Ed il 27 Agosto 2020, di quella fame Ebru Timtik è morta, dopo 238 giorni, all’interno di una cella ad Istanbul.

Che si tratti dell’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi oppure della Turchia di Recep Tayyip Erdoğan non importa. Non siamo solo figli dell’Europa. Non si può sempre fingere che niente ci riguardi, che tutto sia lontano. E a volte tacere diventa una colpa, parlare un dovere. Un obbligo civile, una disciplina morale, un combattimento senza braccia, un movimento di perpetuazione. Nessuno è protetto dall’assolutismo della coartazione. E non difendere equivale a non difendersi. Non ricordare Ebru, Bolek, Kocak, Ibrahim, significa accettare passivamente, assuefarsi, rassegnarsi e arrendersi a una cultura politica che gioca in modo sfrenato con la giustizia, contro chiunque sia troppo debole o troppo forte. Adeguarsi a un inganno diplomatico che è il nostro, perché nella viltá e nella pigrizia siamo tutti complici.

Penso a Nasrin Sotoudeh condannata a 33 anni di carcere e a 148 frustate per aver protetto una donna che manifestava contro l’obbligo di indossare il velo. È ancora in prigione senza poter vedere nemmeno suo marito. E a tutti coloro che giacciono nelle atrocità della calma mediatica.

E allora vorrei ribellarmi, protestare contro qualcosa di grosso che non mi opprime direttamente ma che suona come una minaccia.

E allora non sei morta, Ebru. Nel profumo dei garofani, trecentosessantacinque giorni dopo sei qui, sorridi sfacciata esibendo le scapole e le duecentosei ossa. E la tua forza ci imbarazza, perché gridi ancora: “libertà”, e noi non abbiamo neanche il coraggio di raccontarlo.

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