AltroPOLITICA

La guerra NON è finita (Baustelle). Cosa succede a Kabul

Corre sulla pista e si aggrappa alla base dell’aereo. I piedi a penzoloni dentro ai sandali pesanti di sabbia, la tunica sgualcita e agitata nel vento come una bandiera infamata. Le pieghe di chi ha passato la vita a contorcersi, a emigrare, a scappare. Non la notte: la vita.

Un istante dopo casca giù. Capitola via col peso dei sogni di una ragazza occidentale, un masso troppo ruvido, gli stessi desideri, le stesse ambizioni; io voglio studiare legge, io voglio insegnare ai bambini, io voglio diventare dottore, io io io…

Cade come Kabul, e sembra un replay del “falling man” delle Torri Gemelle. Ma non siamo in America e non è il 2001, sono passati vent’anni e i Talebani festeggiano in cerchio sullo scheletro della capitale dell’Afghanistan. Era l’unica roccaforte governativa rimasta. Gli estremisti entrano nel palazzo presidenziale e lo occupano, decine di combattenti, armi in pugno, sventrano il sontuoso palazzo di Abdul Rashid Dostum, signore della guerra e acerrimo nemico degli insorti che avrebbe dovuto difendere la città di Mazar-i-Sharif e invece abbandona il paese. Ashraf Ghani vola in Uzbekistan, si difende: “l’ho fatto per evitare il massacro.” È l’inizio della diaspora delle nazioni.

“Io non sono pacifista. Io sono contro la guerra.” Pochissimi giorni fa ci ha lasciati Gino Strada, il fondatore di Emergency, la voce libera in difesa degli ultimi. La guerra in Afghanistan ha radici vecchie e logore, ma non esiste massacro laddove c’è coesione, laddove ci si opponga alla lotta con il ferro della resistenza. Resistenza che non è solo forza ma anche umilmente e semplicisticamente coraggio. Dall’Onu Guterres esorta i talebani alla “moderazione”. Ma la misura è impossibile. L’escalation politica e militare nel Paese asiatico pone in pericolo la democrazia, le vite umane e la già fragile stabilità dell’area mediorientale. Continuano a pervenire segnalazioni di abusi e di violenze, ci si interroga sul futuro di donne che hanno conquistato diritti a fatica ed ora sono costrette a cancellare i loro account social, a spegnere i cellulari, a sopprimere l’interazione virtuale di cui con arroganza quotidianamente ci nutriamo. Una cosa da niente, un’emoticon e un clic, una fotografia da ostentare. Fino a ieri. Da oggi non andranno mai più a scuola, all’università, non potranno prendere il bus o spostarsi coi mezzi. E non sono sole donne, sono maschi, figli, padri, intere famiglie. Io voglio studiare legge, io voglio insegnare ai bambini, io voglio diventare dottore, io io io…

…tu tu tu…
Dagli Stati Uniti la voce di Biden arriva superba e non dimessa come attraverso una cornetta. Risponde: not my problem. Ed è una frase forte che fa male, una mina inesplosa che taglia le dita, perché il ritiro legittimo di Biden vuol dire riconsegnare l’Afghanistan agli estremisti e quindi il potere al terrorismo. E noi europei soggiogati seguiamo le volontà degli americani, un morto che detta il testamento. La storia ci insegna che arriviamo sempre tardi, sempre dopo. Il presente che siamo artefici di quella che potrebbe rivelarsi la più grande tragedia del nostro secolo dopo quella dell’11 Settembre.

La guerra non è finita, canterebbero adesso i Baustelle.

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